L'eccessiva tecnologia ci annulla come esseri umani? Dobbiamo abbracciare il progresso informatico e automatizzato fino a perdere le nostre peculiarità? Fino a dove possiamo spingerci? Qual è il limite che non possiamo superare? Sono queste le domande che sembrano emergere dal nuovo album dei Dream Theater, intitolato "Distance over Time". Quesiti che compaiono come un dubbio amletico fin dalla copertina, anche se in questo caso parliamo di un Amleto futuristico e robotico.
Ci troviamo quindi anche di fronte ad un disco freddo e distaccato? Tutt'altro. Ma partiamo da una piccola confessione: non sono mai stato un grande fan del quintetto statunitense. Certo, ho sempre ammirato lo spessore tecnico di ogni singolo componente, senza dubbio mostruoso, ma non mi sono mai veramente appassionato alla loro musica. Il motivo principale è l'assenza di groove in gran parte delle loro composizioni, fatto sicuramente non anomalo in una band progressive, ma semplicemente una caratteristica che ha sempre reso difficile - per me - la digestione dei loro lavori.
Vi chiederete quindi cosa mi ha spinto ad ascoltarmi questo album. L'idea mi è venuta semplicemente leggendo una dichiarazione della band, che affermava di volersi avvicinare maggiormente alle sonorità classiche del buon vecchio Heavy Metal. Ebbene, John Petrucci e compagni sono stati di parola. "Distance over Time" mantiene le caratteristiche di una band prog, con virtuosismi tecnici da far venire le vertigini e cambi di ritmo geniali, aggiungendo però calore e aggressività rispetto ai classici lavori del gruppo.
In particolare proprio la chitarra di Petrucci fa la differenza, con un'alternanza fra assolti chirurgici e riff più graffianti e potenti. Il tutto avviene però senza snaturare l'anima del gruppo, grazie a brani bilanciati, complessi e decisamente ben riusciti, come "Fall into the Light", "S2N", "At Wit's End" o ancora la siderale "Pale Blue Dot", molto probabilmente il pezzo più estremo del disco, e forse anche il più bello.
Ogni tanto però il gruppo decide anche di rilassarsi e giocare un po', come nella micidiale e pesante "Room 137" o ancora nella divertente bonus track "Viper King", che lascia trasparire un'inaspettata attitudine Rock'n'Roll. La cosa bella è che tutto ciò avviene con incredibile naturalezza e senza stonare. La grandiosità tecnica dei musicisti permette di mantenere una coerenza assoluta, anche grazie alla patinata voce di James LaBrie, che dà sempre un tocco inconfondibile a ogni brano. Non va però dimenticato nemmeno il sapiente lavoro di Mike Mangini alla batteria, che con il suo stile riesce sempre a tenere alta l'attenzione, dando allo stesso tempo costanza all'album.
Il disco non è comunque perfetto e un paio di brani, come "Barstool Warrior" e "Out of Reach", non raggiungono il livello degli altri, e in particolare il secondo francamente risulta un pochino banale. Nonostante questo nel suo complesso il lavoro è decisamente riuscito ed è una dimostrazione lampante di come si possa evolvere senza tuttavia snaturarsi.
VOTO: 8+/10
Ci troviamo quindi anche di fronte ad un disco freddo e distaccato? Tutt'altro. Ma partiamo da una piccola confessione: non sono mai stato un grande fan del quintetto statunitense. Certo, ho sempre ammirato lo spessore tecnico di ogni singolo componente, senza dubbio mostruoso, ma non mi sono mai veramente appassionato alla loro musica. Il motivo principale è l'assenza di groove in gran parte delle loro composizioni, fatto sicuramente non anomalo in una band progressive, ma semplicemente una caratteristica che ha sempre reso difficile - per me - la digestione dei loro lavori.
Vi chiederete quindi cosa mi ha spinto ad ascoltarmi questo album. L'idea mi è venuta semplicemente leggendo una dichiarazione della band, che affermava di volersi avvicinare maggiormente alle sonorità classiche del buon vecchio Heavy Metal. Ebbene, John Petrucci e compagni sono stati di parola. "Distance over Time" mantiene le caratteristiche di una band prog, con virtuosismi tecnici da far venire le vertigini e cambi di ritmo geniali, aggiungendo però calore e aggressività rispetto ai classici lavori del gruppo.
In particolare proprio la chitarra di Petrucci fa la differenza, con un'alternanza fra assolti chirurgici e riff più graffianti e potenti. Il tutto avviene però senza snaturare l'anima del gruppo, grazie a brani bilanciati, complessi e decisamente ben riusciti, come "Fall into the Light", "S2N", "At Wit's End" o ancora la siderale "Pale Blue Dot", molto probabilmente il pezzo più estremo del disco, e forse anche il più bello.
Ogni tanto però il gruppo decide anche di rilassarsi e giocare un po', come nella micidiale e pesante "Room 137" o ancora nella divertente bonus track "Viper King", che lascia trasparire un'inaspettata attitudine Rock'n'Roll. La cosa bella è che tutto ciò avviene con incredibile naturalezza e senza stonare. La grandiosità tecnica dei musicisti permette di mantenere una coerenza assoluta, anche grazie alla patinata voce di James LaBrie, che dà sempre un tocco inconfondibile a ogni brano. Non va però dimenticato nemmeno il sapiente lavoro di Mike Mangini alla batteria, che con il suo stile riesce sempre a tenere alta l'attenzione, dando allo stesso tempo costanza all'album.
Il disco non è comunque perfetto e un paio di brani, come "Barstool Warrior" e "Out of Reach", non raggiungono il livello degli altri, e in particolare il secondo francamente risulta un pochino banale. Nonostante questo nel suo complesso il lavoro è decisamente riuscito ed è una dimostrazione lampante di come si possa evolvere senza tuttavia snaturarsi.
VOTO: 8+/10
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