I Bastard Sons mi sono simpatici. Sarà perché sono gli eredi legittimi e diretti dei Motörhead, e quindi del Rock'n'Roll, sarà perché sono la famiglia allargata del leggendario Phil Campbell, o semplicemente perché hanno dei buffi faccioni da gallesi. Fatto sta che già dell'album d'esordio avevo parlato piuttosto bene proprio su queste pagine.
Il secondo album però, anche quando si ha un capitano di lungo corso come l'esperto chitarrista, è sempre delicato, un rischio dopo gli esordi che tendono ad essere fondamentalmente adrenalinici per ogni gruppo con un minimo di capacità. Ebbene, sono felice di dire che questo delicato passaggio è stato superato brillantemente. Anzi, dirò di più: se nel primo lavoro si poteva pensare a un semplice prolungamento dei Motörhead senza la semi-divinità Lemmy, ora - passo dopo passo - si cominciano a vedere quelle che sono le caratteristiche peculiari della band.
Le prime note vanno sul sicuro, con la title-track "We're the Bastards", un autentico inno alla grande famiglia allargata dei piccoli bastardi, inclusi ovviamente i fan. Un pezzo riuscito e che vi rimarrà in testa a lungo. E si continua sulla scia del sano heavy Rock'n'Roll anche con "Son of a Gun". Nel corso dell'album però si comincia a vedere un'altra venatura del gruppo, un lato nettamente più blues e potremmo dire introspettivo. Un esempio su tutti è la riuscitissima "Born to Roam", che mischia sonorità esplicitamente desertico-americane con il timbro comunque riconoscibile dei bastardi.
E poi si alterna, con la sismica "Animals", che potrebbe tranquillamente far tremare il vostro salotto se ascoltata al giusto volume, per poi tornare ad ambientazioni più blues con "Desert Song", dove la band sembra semplicemente essere pienamente a suo agio. E se nel primo album in molti - compreso il sottoscritto - avevano messo in discussione la voce di Neil Starr, a tratti troppo pulita, ora quella stessa ugola si dimostra un'arma vincente, capace di adattarsi a più sonorità e ormai marchio di fabbrica del gruppo stesso.
Se sull'arco delle 14 canzoni ci sono anche un paio di passaggi a vuoto, le sorprese non sono comunque finite. Ci troviamo quindi improvvisamente sommersi da un'aggressione in pieno stile Punk con la roboante e magnificamente adolescenziale "Destroyed", per poi arrivare alla ciliegina sulla torta: la finale "Waves". Si tratta di un brano semplicemente fantastico, lento, tetro, con un gusto della melodia non comune e che si allontana da quanto proposto fino ad ora. Insomma, una vera e propria dimostrazione di versatilità a originalità.
VOTO: 8,5/10
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