Non so come la vedete voi, ma per quel che mi riguarda i Testament equivalgono ad una sorta di marchio di qualità. Almeno musicalmente parlando sono infatti molto rari i passi falsi, e nella mia memoria sono anche marcate a fuoco diverse devastanti performance dal vivo.
Non sono rimasto quindi certo stupito, quando ho ascoltato l'undicesimo album "Brotherdhood of the Snake" e ho scoperto che si trattava dell'ennesima cannonata. Non so quale sia il loro segreto, forse hanno semplicemente trovato una facile ricetta che fa funizonare le loro canzoni, oppure hanno scoperto una fonte inesauribile di ispirazione. Sicuramente sono aiutati dal fatto di essere grandi musicisti, e di avere in Chuck Billy un cantante fenomenale.
Già, Chuck Billy: se vi piace la sua voce - e se non fosse il caso vi consiglio caldamente una visita dell'udito presso il più vicino otorinolaringoiatra - non potrete non emozionarvi fin dall'inizio. Un nervoso riff di chitarra dal sapore tipico della Bay Area di San Francisco introduce l'album, seguito dal potentissimo urlo del buon Chuck dietro al microfono. Roba da rimanerci secchi. Il pezzo, title-track del disco, è pesante come un macigno, ma allo stesso tempo agile e scattante e non a caso è stato scelto come singolo. Tra l'altro, sentire tutto questo a pochissimi giorni dal grande ritorno dei Metallica, non può che far ben sperare per tutta la scena Thrash Metal.
Si continua con un riff di chiattarra granitico, con il vocalist che questa volta sceglie toni leggermenti più acuti e allo stesso tempo più malefici, dando vita al pezzo "The Pale King", anche questo scelto fra i brani di presentazione dell'album. "Stronghold" conclude poi questo micidiale trittico iniziale: si tratta forse del brano più riuscito in assoluto, potente all'inverosimile, con un Gene Hoglan dietro alle pelli che sembra letteralmente esplodere e un ritornello che rimane stampato in testa. Il tutto, manco a dirlo, è amplificato da una produzione fenomenale.
"Seven Seals", un deciso e adrenalinico mid-tempo, ci fa capire che la band americana non vuole lasciarci tregua, continuando a sfornare brani semplicemente belli - praticamente tutti comporti da Eric Peterson - oltre che taglienti come un rasoio. Un altro capolavoro dell'album è sicuramente "Centuries Of Suffering", che con un Chuck Billy incazzato come non si sentiva da tempo e un'attitudine decisamente violenta sembra provenire direttamente dai primi anni della band.
Forse l'unico passo falso del lavoro è rappresentato da "Black Jack", che propone una parte melodica decisamente forzata e poco azzeccata nel contesto. Poco male però, poiché la situazione si risolleva subito grazie a terrificanti bordate come "Neptune's Spear" e soprattutto "The Number Game", che mette fine ad un autentico terremoto sonoro.
VOTO: 9/10
Non sono rimasto quindi certo stupito, quando ho ascoltato l'undicesimo album "Brotherdhood of the Snake" e ho scoperto che si trattava dell'ennesima cannonata. Non so quale sia il loro segreto, forse hanno semplicemente trovato una facile ricetta che fa funizonare le loro canzoni, oppure hanno scoperto una fonte inesauribile di ispirazione. Sicuramente sono aiutati dal fatto di essere grandi musicisti, e di avere in Chuck Billy un cantante fenomenale.
Già, Chuck Billy: se vi piace la sua voce - e se non fosse il caso vi consiglio caldamente una visita dell'udito presso il più vicino otorinolaringoiatra - non potrete non emozionarvi fin dall'inizio. Un nervoso riff di chitarra dal sapore tipico della Bay Area di San Francisco introduce l'album, seguito dal potentissimo urlo del buon Chuck dietro al microfono. Roba da rimanerci secchi. Il pezzo, title-track del disco, è pesante come un macigno, ma allo stesso tempo agile e scattante e non a caso è stato scelto come singolo. Tra l'altro, sentire tutto questo a pochissimi giorni dal grande ritorno dei Metallica, non può che far ben sperare per tutta la scena Thrash Metal.
Si continua con un riff di chiattarra granitico, con il vocalist che questa volta sceglie toni leggermenti più acuti e allo stesso tempo più malefici, dando vita al pezzo "The Pale King", anche questo scelto fra i brani di presentazione dell'album. "Stronghold" conclude poi questo micidiale trittico iniziale: si tratta forse del brano più riuscito in assoluto, potente all'inverosimile, con un Gene Hoglan dietro alle pelli che sembra letteralmente esplodere e un ritornello che rimane stampato in testa. Il tutto, manco a dirlo, è amplificato da una produzione fenomenale.
"Seven Seals", un deciso e adrenalinico mid-tempo, ci fa capire che la band americana non vuole lasciarci tregua, continuando a sfornare brani semplicemente belli - praticamente tutti comporti da Eric Peterson - oltre che taglienti come un rasoio. Un altro capolavoro dell'album è sicuramente "Centuries Of Suffering", che con un Chuck Billy incazzato come non si sentiva da tempo e un'attitudine decisamente violenta sembra provenire direttamente dai primi anni della band.
Forse l'unico passo falso del lavoro è rappresentato da "Black Jack", che propone una parte melodica decisamente forzata e poco azzeccata nel contesto. Poco male però, poiché la situazione si risolleva subito grazie a terrificanti bordate come "Neptune's Spear" e soprattutto "The Number Game", che mette fine ad un autentico terremoto sonoro.
VOTO: 9/10
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