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Iron Maiden - The Final Frontier

Ci sono degli album molto facili da recensire: un paio di ascolti bastano per coglierne l’essenza, ciò che comunicano e la strada stilistica che vogliono intraprendere. Esistono invece degli album che rendono la vita decisamente difficile allo scribacchino di turno, che necessitano di più e più ascolti per poterne percepire tutte le caratteristiche. “The Final Frontier” fa parte di quest’ultima categoria, prima di tutto a causa della sua complessità, ed in secondo luogo per l’effetto di “straniamento” dovuto ad una lontananza abissale dalle aspettative. Gli Iron Maiden sembrano infatti essere cambiati: dopo i cupi e atipici esperimenti di “A Matter of Life and Death” era lecito attendersi un ritorno a sonorità più classiche e dirette, ma questo non è accaduto.
Il nuovo lavoro di Bruce e compagni è tutto tranne che diretto, è anzi piuttosto complesso e sembra voler diluire le idee brillanti in un lago di intermezzi strumentali e introduzioni per buona parte assolutamente inutili e - diciamolo pure - noiosi.
Oltre a questo il CD manca di fluidità e sembra essere spezzato nettamente in due parti. La prima di queste - composta dalle prime cinque canzoni - presenta i brani più semplici, che però non sono assolutamente delle bordate metalliche che tanto avrebbero fatto felci i fans e mancando della necessaria potenza e incisività. In questo inizio privo di idee veramente degne di nota l’unico brano a salvarsi completamente è “Coming Home”, una power ballad che ricorda molto i dischi solisti di Dickinson, e in cui lo stesso Bruce fa la parte del leone, emozionando finalmente l’ascoltatore. “The Alchemist” è la sola canzone a ricordare i classici della band e, pur non facendo gridare al miracolo, si lascia ascoltare con piacere.
Nella seconda parte dell’album si palesa l’evoluzione intrapresa dalla Vergine di ferro, una trasformazione verso brani più complessi che può non piacere, ma in cui la band sembra al momento trovarsi più a suo agio. È infatti nelle ultime 5 canzoni - nessuna delle quali inferiori ai 7 minuti di durata - che si possono sentire le idee migliori, in alcuni casi autentici colpi di genio che però, come già detto, annegano in una marea di cose superflue. Praticamente ogni pezzo ha un lento preludio di almeno un paio di minuti, una cosa snervante che fa perdere di slancio tutto l’album. Emblematica a questo proposito “Isle of Avalon”, che propone parti altamente interessanti, che si perdono prima in un’intro di quasi tre minuti, e poi in lunghi passaggi strumentali. La classe del gruppo è ancora oggi innegabile, basti pensare ad un autentico capolavoro come “The Talisman”, che nonostante una nuova e interminabile intro medievaleggiante, riesce poi a far venire i brividi lungo la schiena come solo una canzone dei Maiden sa fare, anche grazie ad una performance sensazionale di Dickinson. “When The Wild Wind Blows”, pur non smentendo la durata spropositata delle nuove composizioni, termina poi il lavoro in modo più che dignitoso.
Gli Iron Maiden sono cambiati, non so dirvi se per sempre o solo per il momento, ma sono cambiati. Le cavalcate di Steve Harris sono sempre più rare e le canzoni sempre più lunghe, forse questo non è necessariamente un male, ma io vado ad ascoltarmi “The Trooper”.

Voto: 6,5 / 10

Commenti

  1. bella recensione...ma sotto sotto l'album ti è piaciuto ammettilo...6,5/10 non è una stroncatura :)

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  2. Dipende dai punti di vista, una band col loro nome dovrebbe arrivare MINIMO ad un 8. Alla fine hanno la fortuna di avere un cantante che renderebbe interessante anche la ninna nanna della nonna :P

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